Elogio dell’irrequietezza ⥀ Indagini critiche su Poena Damni di Dimitris Lyacos

«Un prosimetro in tre volumi che ci lascia entrare in una civiltà distopica dove la totalità, l’intero, il senso di insieme delle cose sono andati perduti»: Donato Di Stasi recensisce la trilogia Poena Damni (il Saggiatore, 2022) dello scrittore greco Dimitris Lyacos

 

1. Incipit

Ci sono libri che dicono poco e libri che dicono troppo: i primi appartengono al genere balneare, o del dormiveglia e non conta farne menzione; i secondi inquietano lo spirito, sfidano la ragione, sollecitano l’immaginazione a destarsi dall’anestesia di massa.
A questa seconda genìa appartiene la trilogia Poena Damni, che leggiamo nella magnifica traduzione di Viviana Sebastio, capace di ricreare in italiano il denso impasto linguistico dell’originale greco, opera di un autore di indubbio talento, Dimitris Lyacos.
Si tratta di un libro drammaticamente vero e frugiferante in tempi di desertificazione della letteratura: un prosimetro (prose e poesia) in tre volumi che ci lascia entrare in una civiltà distopica e ci fa camminare lungo i bordi dell’abisso, dove la totalità, l’intero, il senso di insieme delle cose sono andati perduti. Davanti allo sguardo si affastellano lamiere marcite, tralicci spezzati, materassi sventrati, fosse comuni, ospedali-prigione, città-cimitero, treni lanciati verso il nulla, sentimenti che non riescono più a stare al mondo: l’autore che raccoglie questi frantumi non si perde d’animo e accende i suoi poemi-fiammiferi, gettandoli in una tenebra pressoché assoluta. Con quale effetto? Lo decide il lettore, avendo tra le mani testi-fenice che possono rinascere dalle loro ceneri, se solo se ne comprende la ricchezza. Dunque un prosimetro dai tratti metafisici, ambientato fra la Zona Morta e l’Esilio: una realtà larvale, allucinata, deforme, nella quale tutto appare nudo, spaventosamente e oscenamente nudo, ma di una potenza espressiva senza pari.

 

2. Primo labirinto. Struttura e linguaggio della trilogia

Per  delineare la complessa articolazione della sua opera l’autore si serve di una quantità incredibile di generi letterari, riuscendo a calibrarne l’articolazione e la relazione dell’uno con l’altro: dal teatro greco classico al racconto fantasy, dalla poesia notturna preromantica alla letteratura di viaggio, il tutto cucito con un filo rosso di violento espressionismo («Nel sartiame insanguinato del cervello / tentacoli interni e il sisma / spumeggia un’insaziabile larva alle foci / del cranio / e altri vermi infuriano», VII, La prima morte).
In quale avventura si imbatte il lettore della trilogia Poena Damni?
Si comincia con la fuga del protagonista da una città straziata, dal rinvenimento di una Bibbia nella tasca di un soldato morto e dalla decisione di tenere un diario per annotare ogni aspetto dell’orrore (primo volume, Z213: Exit).
Si prosegue con il secondo volume, nel quale il protagonista sbatte contro una radura mefitica, una sorta di teatro, dove va in scena il tema ancestrale dell’amore e della morte e dell’impossibilità di salvare la donna amata (secondo volume, Con la gente dal ponte).
Si approda all’ultima tappa del viaggio, al luogo del doppio e dello straniamento: un’isola che intossica la coscienza e le impedisce l’accesso all’unica, intravista, via di salvezza (terzo volume, La prima morte).
Poena Damni (Il dolore per ciò che è perduto) ci costringe a considerare la realtà da una diversa prospettiva, attraverso una visione più ampia, poetica e impoetica a un tempo, operazione condotta anche a livello grafico con il ricorso a caratteri tipografici differenti, con la frattura e la separazione dei fonemi:

«Nastri trasportatori, altri, seguili, più vai avanti più si re- / stringe, / come una mano      nel muro // Mat   a   pri    fango  soffice più scavi / più cola, sempre più soffice, sempre più caldo, una mano / spezzata di pietra ti trascina in mezzo agli altri. Corpi in-/corruttibili. // Come la pietra e il ferro. Scala di legno quasi putrefatta/ma riesci a salire, uno straccio bianco. No, e un gabbia- / no. / Stecchito confuso nel mucchio, un’ala che sbuca tra gli / abiti. Gola mangiucchiata ancora gocciolante. Topi. San- / gue sugli artigli. Mangiucchiato il becco. // Nessun odore però. Solo polvere» (Z213: Exit, p. 60).

Se i processi narrativi, poetici e grafici subiscono studiate interruzioni, non viene mai interrotta la continuità del discorso. Dietro l’apparente disordine ciascun capoverso mostra una logica impeccabile, un pensiero perfettamente sicuro e argomentato, a dispetto dell’inarginabile irragionevolezza del mondo esterno.
Se è vero che l’ordine sensato del linguaggio entra in dialettica collisione con il disordine insensato della realtà, sappiamo sempre dove Dimitris Lyacos intende condurci: in un dedalo funesto di ceneri e rovine, dentro una città-mondo sconfitta e trafitta, dentro luoghi nei quali l’esperienza della disperazione non ha limite, mentre la speranza si riduce a un inconsistente punto della mente.
Il linguaggio stesso diventa un intrigo, che respinge e seduce, con le sue perfette concatenazioni plurisemantiche e con i suoi lati oscuri da chiarire, lettura dopo lettura.

 

3. Secondo labirinto. La scrittura poetica come possibile soluzione della complessità

Dimitris Lyacos destruttura il linguaggio e lo ricostruisce su nuove basi espressive, a partire dalla discontinuità e dall’incongruenza grammaticale.

«Aveva detto        inseguirò raggiungerò / Si sazierà la mia brama     di carne      si sono sciolti tutti. / Cresta di onde insanguinate / li ricoprì // il sussurro. // Pri    ma che       cali la notte       cantiamo a / nel dare // donano frutti       come la brina sulla terra / latrati di segugi sulle tracce» (Z213: Exit, p. 111).

Abuso dell’otto volante poetico, o necessità di stilare una nuova carta di valori compositivi?
L’uno e l’altro. L’autore esaspera il lettore, lo provoca, facendolo salire su una giostra impazzita, esattamente come il protagonista del secondo volume della trilogia, Con la gente dal ponte. Questo movimento volutamente anarchico contrasta fortemente con le direzioni conservatrici e retrograde che ancora affliggono la scrittura poetica e la collocano per questo al di fuori della contemporaneità.
Certo si potrebbe obiettare che nei versi appena citati circola un quantum di scrittura compiaciuta della propria illeggibilità, ma non credo sia il nostro caso. Poena Damni si impone come un’opera necessaria, in ogni pagina e in ogni verso: pura circolazione adrenalinica di suono e senso per intercettare i sovvertimenti epocali in atto.

«O potresti non ricordarlo, ricordare qualcos’altro, dormi, ti svegli così tante volte, così tanto spesso, non sai più se stai dormendo o se sei sveglio, perché essere sveglio, ora forse stai dormendo, ciò che ricordi forse lo ricordi nel sonno, svegliarti in un sogno, ricordare nel sogno, ricordi altra memoria altre cose nel sogno, e puoi avere una vita tua nel sogno, ricordi chi sei lì e cosa hai fatto, anche se potresti non essere quello che eri quando ti risvegli non hai dubbi su chi tu sia nel sogno, persino quando cambi e stai cambiando di continuo, non te lo chiedi, è naturale che sia così» (Z213: Exit, p. 126).

Poena Damni si dimostra una vetta in fiamme, un altopiano fatto a pezzi, un avvallamento dove si raccolgono le acque reflue del malessere di questo inizio secolo, una pianura scoscesa, prefigurazione di una prossima apocalisse: il sostrato greco dell’opera viene mescolato con le tremende forze telluriche del decaduto spirito occidentale. Un dolore profondo attraversa le pagine, misto a una furia distruttiva dell’esistente per gettare uno sguardo doloroso sul futuro.

 

4. Terzo labirinto. Un’Odissea senza navi e senza ritorno

Poena Damni figura come il racconto di un naufragio di terraferma. La mancanza del mare allude alla perdita dell’elemento amniotico, materno: è la fine dell’accoglienza, del grembo, del nostos. Con il suo prosimetro Dimitris Lyacos segnala l’imporsi, ancora una volta, nella Storia dell’elemento conflittuale, guerresco, paterno, con la conseguenza inevitabile di distruzioni e massacri che la letteratura semplicemente anticipa.

«Sabato mattina. Gli altri fuori portavano pezzi di / legno, rami, ciò che trovavano. Pioggia per tutta / la notte. Ora di meno. Hanno gettato dentro un / pezzo lacero di pneumatico e un libro. Ancora / pioggia. Con una bottiglia hanno versato qualcosa / dall’alto e hanno buttato dentro un fiammifero. / Fiamme, poi solo fumo. Hanno impregnato / un altro straccio e l’hanno gettato dentro. Un / poco alla volta ha preso. Poi una busta, hanno / tirato fuori le sue scarpe e i suoi vestiti per gettarli / dentro uno per volta aspettando un po’, prima / i vestiti, scarpa, scarpa. Per poco non si spegneva. / Hanno impregnato un altro straccio. E / un’altra busta e altri libri. Strappavano, strappa- / vano, dentro. E poi quello con la pala ha chiama- / to gli altri per aiutarli a tirarla su. Hanno tirato / su. Puzzava e non volevano aprire subito. Si sono / spostati più in là. Il fuoco aveva preso e ora si fa- / ceva sempre più intenso. Era oggi» (Con la gente dal ponte, pp. 56-58).

L’autore si serve del doppio sguardo di narratore e poeta per avere la meglio sulla stasi dell’anima: discorre delle terre-sudario, affronta le circostanze che le assediano, le disgregano, le portano a una deriva di morte e di squartamenti. Che cosa vuol dire Lyacos con la sua intemerata navigazione di terraferma? Vuole svelare il segreto della catastrofe, perché non intende più sentirsi ombra, nascondere l’abisso che gli infuoca dentro. Da qui i continui cambi di passo nella scrittura: le accelerazioni, gli strappi, le fughe in avanti (nel narrato) e le ritirate in un lirismo tagliente, raziocinante, antisentimentale. Si profila in Poena Damni un enorme campo dialettico dove collidono livelli diversi di significato, fino a che uno strato semantico scivola nell’altro in una salutare intersezione e contaminazione, impedendo che tutto collassi nel caotico, nel rumore fine a se stesso.
Il vortice creativo investe le cristallizzazioni del reale, le fa dapprima oscillare, poi slittare e spezzarsi, così flussi di scrittura e segmenti di vita appaiono inestricabilmente connessi, manipolati, assemblati, stratificati, allo scopo di creare differenze, variazioni, molteplicità di temi.
Dimitris Lyacos immagina nello spazio fra scrittura e realtà una specie di deserto da popolare, per questo motivo i testi e i loro riferimenti non costituiscono semplicemente un punto di approdo (la vecchia Odissea), ma passaggi cruciali, biforcazioni, soglie di trasformazione di un mondo diverso (la nuova Odissea).
Flussi testuali e flussi di realtà creano uno spazio dinamico, tensivo, una linea di fuga verso un divenire aperto, variabile, comprensibile solo nei termini del sentire poetico.
Tra vecchia e nuova Odissea Dimitris Lyacos appronta una mappatura dei punti di intersezione, individua la modalità delle future connessioni in termini di relazioni umane e di rapporti fra l’individuo e la natura-paesaggio.

«Placida sera. Disperanza. / Si sono placati i demoni. Ulula la Luna. Sentieri monu- / menti di flagellazione. Cani scannati nuotano in fossati / appassiti. Congelano ossa e scaglie voluttuose. Conse- / guenza di volto senza bocca. Sete di resurrezione. Mi bat- / tezzo nelle trincee del lutto; aridi baci, spugna amara, la / foglia marcia restituita alla terra. Ritorna dentro. Gonfio / di lussuria, sacrilego mi contorco, nei recessi del tuo corpo / sanguino. Immacolata rugiada tracima nell’alba del tuo / abbraccio. / Placida aurora. Disperanza» (La prima morte, p. 18).

 

5. Explicit

Tra carrucole e ingranaggi, tra un nastro trasportatore e una gigantesca clessidra, tra angeli protesi verso il basso e demoni in rabbiosa ascesa esisteranno sempre un altrove verso cui incamminarsi e un orizzonte che si allontana, così come un dio che abbandona vigliaccamente il mondo, oppure una città che sale e che sprofonda.
Esisterà sempre la poesia, il fuori luogo, l’eccentrico, il mostruoso e il meraviglioso.
C’è un filo tenace, fatto di semplice lana, che Arianna consegna a Teseo e che Dimitris Lyacos consegna a ciascun lettore per uscire dal labirinto di questa tarda e insensata modernità.

(Donato di Stasi)

 


Dimitris Lyacos (Atene, 1966) è scrittore, poeta e drammaturgo, conosciuto per la sua capacità di padroneggiare e attraversare vari generi letterari e di combinare insieme temi della tradizione letteraria con elementi propri dei riti, della religione, della filosofia e dell’antropologia. La trilogia Poena Damni, iniziata trent’anni fa e concepita come un eterno work in progress, arricchito da nuove aggiunte e contributi da altri media, tra cui danza, pittura, installazioni, scultura, video art, musica contemporanea e teatro, è stata tradotta in più di quindici lingue e presentata in tutto il mondo. Ha vissuto in Italia, a Venezia, dal 1987 al 1991, e poi a Londra, per studiare all’University College, specializzandosi in filosofia analitica, epistemologia e metafisica, filosofia presocratica e Wittgenstein. Ha girato il mondo per presentare e leggere brani delle sue opere. Dal 2005 risiede a Berlino. È Fellow al IWP, University of Iowa, il più prestigioso programma del mondo per la letteratura internazionale e scrittura creativa. In Historical Dictionary of Postmodernist Literature and Theater di Fran Mason (Rowman&Littlefield) è citato come uno dei dieci autori più importanti della letteratura postmoderna del XXI secolo.

Donato Di Stasi, ex poeta, saggista e critico militante. Suoi interventi sono apparsi sulle riviste cartacee: «Fermenti», «L’area di Broca», «I nipoti di Rameau», «Risvolti», «Immaginazione», «Atelier», «Polimnia», «Testuale», «Exibart», «Rivista di Letteratura Italiana», «La nuova ricerca», «Pagine», «Almanacco di Odradek», «Linfera». Per la casa editrice Fermenti ha diretto la collana Minima Verba-Versi, Prose, Aforismi per un tempo nuovo. Per gli stessi tipi editoriali ha curato numerose pubblicazioni di narrativa e di poesia. Ha raccolto poeti e narratori in una decina di antologie, tra cui Riluttanti al nulla, Lo sguardo senza volto, Dentro spazi di rarità, Il paradosso di Teseo, Il diavolo a molla. Insegna Storia della critica cinematografica per l’Università popolare di Ostia. Presso il Teatro del Lido dirige il cineforum La lanterna magica.

 

*Immagine in copertina di Fritz Unegg, Six Masks for The First Death, 1996.