Teatromania – Il miracolo del teatro russo

Siamo nel 1919, in Russia.

Nell’ottobre del 1917, secondo il calendario russo, è scoppiata la rivoluzione.

Il paese è scosso tremendamente dalla guerra civile; ma, per ironia della sorte, in questo contesto di morte, guerra e fame, con uno sfondo che si macchia di sangue, ha luogo l’età d’oro del teatro sovietico.

Certo, non si può dire che fu del tutto una casualità: lo stesso Lenin investì molto sulla drammaturgia e sugli spettacoli, mentre i russi stessi, nonostante la fame e la guerra, furono tra gli elementi più attivi della vita culturale.

Oggi come allora, si parla di una Russia che amava il teatro, e di una Russia affamata. Quale delle due versioni è reale? Entrambe.

Infatti, nelle pagine di Viktor Borisovič Šklovskij (scrittore e critico letterario russo) si trovano testimonianze delle terribili condizioni di vita di quella Russia tra il 1918 ed il 1920 in cui nacque il grande teatro sovietico. Šklovskij ci descrive, o meglio, ci testimonia, la straordinaria tenacia della cultura in un ambiente così terribile: una rosa in mezzo alle macerie, che prende il suo nutrimento dal bisogno di vita, dalla necessità di sognare un presente nuovo e che cresce, suo malgrado, costantemente e di una bellezza rara.

“La gente fa arte con la stessa tenacia con cui cerca cibo e legna, scrive saggi e compone poesia. Ha perso la voglia di far l’amore ma non di scrivere e fare arte”.

Teatro, soprattutto: in Russia la fame di cibo si coniuga con la fame di teatro.

Teatromania, viene chiamata” scrive Mirella Schino, a proposito dell’atmosfera che si respira in Russia, in “La nascita della regia teatrale.”

Lo spettacolo si fondava sulle necessità del presente, ma stimolava sogni, illusioni, cercando di ricreare una vita che purtroppo non c’era più. Si ha bisogno di nutrire l’anima con qualcosa che emerga dal grigiore delle città, dalla distruzione delle guerre. Si praticava l’acrobazia, si cercava di mandare messaggi politici, di rivolta tramite gli spettacoli, come ad esempio fece Vachtangov quando mise in scena la Tourandot di Carlo Gozzi, dove gli attori erano giovani, ragazzi figli della rivoluzione.

Attraverso il teatro si cercava di trasmettere degli ideali per imprimere nelle persone un messaggio capace di risvegliare l’umanità che la guerra aveva lacerato.

Questo sentimento si respira, per esempio, nel teatro di Stanislavakij, ma anche in quello di Craig, Appia, Mejerchol’d, Vachtangov e Tairov, grandissimi esponenti della scuola russa, che hanno apportato all’interno della pratica teatrale grandiose innovazioni.

Mejerchol’d, nato nel 1925, fu tra i più importanti esponenti del teatro russo novecentesco

Innovazioni che riguardano il movimento, ora veloce, rapido, velato. La figura fisica dell’attore si dissolve con movimenti armonici, con veli, così da dar più importanza alla scena nella sua complessità. Qui, l’uomo si annulla per lasciar spazio all’armonia, al silenzio, all’immobilità, mentre fuori piovono bombe.

Fuchs propose nel suo teatro la figura di Sada Yacco, danzatrice teatrale, idolatrata come “danzatrice del sonno”. La danza, per lui, doveva essere lo specchio dell’ordine dell’universo, quindi armonica, delicata; una piuma che cattura l’attenzione degli spettatori semplicemente volteggiando nell’aria.

In quest’ambiente, quindi, si creò un divario tra il vecchio e nuovo teatro. Ci fu un nuovo modo di percepire la danza, la presenza in scena degli attori, la connessione tra i movimenti e la natura. La danza divenne quella connessione corpo-natura che non c’era più, che era stata spazzata via a mano a mano dalla civilizzazione dei popoli fino ad arrivare alle rivoluzioni e agli spargimenti di sangue.

Dalcroze, ad esempio, teorizzò e mise in scena l’immagine del ritmista come funambolo. Non fu la danza classica la protagonista del teatro novecentesco, ma la ritmica, coi suoi movimenti coreografici e le sue azioni che richiamavano l’uomo primitivo, che richiamavano la danza prima ancora dell’uomo.

Il ritmista come funambolo prevede una ricerca interiore attraverso il movimento, un equilibrio non solo scenico ma spirituale, in stretta sintonia con le forze della natura. 

Appia, invece, vide nella musica uno “spirito guida”, un “soffio vitale”, in un contesto in cui “vita” era la parola chiave.

Un altro esempio di un esponente del teatro russo che cercò di far trovare ai suoi attori la fame di vita attraverso un ritorno alle origini, così da poter rivitalizzare un pubblico lacerato fu Nizinskij (primo danzatore di balletti russi).

In “Le Sacre du Printemps” creò, appunto, un’atmosfera primitiva e selvaggia. Il danzatore era insieme uccello e pantera. Gli spettatori stessi subivano una metamorfosi, una sensazione di volo. In questa messa in scena furono eliminati salti, per portare dramma sul palco. Fu rivoluzionato anche l’uso del suolo: l’attore è richiamato perennemente dalla gravità, dal pavimento, conferendogli così una drammaticità pura.

Il corpo qui non è una prigione, ma parla e raccoglie i sentimenti. I movimenti permettono alle emozioni non di fuggire, ma di danzare con loro.

Dentro ci sono innovazioni, fuori c’è la guerra.

Il teatro sovietico, dopo la rivoluzione russa, è ancora più esplosivo. I grandi registi collaborano tutti insieme per dare complessità ed interezza alle loro opere. Ci si scambiano idee, pensieri, metodi di lavoro. C’era la voglia di creare, di far respirare agli spettatori un’atmosfera pura, sana, pulita, così da rigenerarsi e da non lasciare che le ultime briciole di umanità venissero spazzate via dalle esplosioni. I russi lasciarono che le loro emozioni fossero salvate, portate in salvo dal teatro, dall’arte, dalla cultura.

La rivoluzione unì, soprattutto diede un impulso non indifferente perché le idee, anche le più bizzarre, potessero essere sviluppate: uomini che volteggiano in aria, circo, acrobati, personaggi che interagiscono col pubblico o che sono in mezzo al pubblico stesso.

L’innato istinto teatrale dei suoi abitanti, l’intensità del loro lavoro ed il grandioso senso di comunità diede la possibilità alla Russia di diventare un vero e proprio “Paradiso del teatro”, definizione di Seki Sano, regista giapponese che studiò con Mejerchol’d e Stanislavskij, e che, una volta espulso dal paradiso, ne portò gli insegnamenti fino all’America Latina.

Quando si vive una situazione di malessere, si può cercare una via d’uscita o sviare il problema. Il problema della Russia era alquanto difficile da sviare e, per stare bene, ci si dedicò all’arte, che da sempre coglie il cuore intimo delle passioni dell’uomo.

 

Tatiana Sisini