Oggettivare il vano, vanificare il soggetto ⥀ Strategie della visione in Nature morte e vanità di Alfonso Maria Petrosino

Dalle tecniche di rappresentazione delle arti figurative, una recensione di Chiara Portesine all’ultima raccolta poetica di Alfonso Maria Petrosino, Nature morte e vanità (Vydia, 2020)

petrosino petrosino

«La monotonia rimproverata a Morandi per le sue bottiglie è soltanto una certa maniera di oggettività»1. Così Vitale Bloch introduceva al pubblico le mostre olandesi e inglesi del 1954, tentando di smarcare Morandi dall’ingombrante epiteto di ‘pittore delle bottiglie’ – assegnatogli dal senso comune e, come spesso accade, ufficializzato per inerzia da una certa critica d’arte affamata di contenutismo. L’apprendistato consumato su un unico tema – peraltro, iper-canonizzato nella storia dei Leitmotive visivi – viene ricondotto dallo storico dell’arte a un esercizio di oggettività, una forma di auto-addestramento alla concretezza resa paradossalmente più realistica dall’adozione di una griglia prescrittiva. La prevedibilità degli elementi (bicchieri, bottiglie, più raramente un frutto) libera l’osservatore dalla curiosità distraente della trama, deviandone l’attenzione verso l’essenza stessa del reale nascosto dietro l’artificio delle storie (e della Storia).

Di mitologemi figurativi Alfonso Maria Petrosino ne sceglie addirittura due (la natura morta e l’autoritratto), costruendovi attorno un universo poetico rassicurantemente visionario. Nelle precedenti raccolte – Autostrada del sole in un giorno di eclisse (Omp, 2008), Parole incrociate (Tracce, 2008) e Ostello della gioventù bruciata (Miraggi Edizioni, 2015) – era stata la metrica a rappresentare il dogma liberatorio del verso, in un pericoloso cocktail tra forme esportate «dal nobile passato italiano» e «spregiudicati» temi contemporanei, come riscontrato da Paolo Giovannetti2. Il vincolo metricistico (vizio e vezzo difficile da perdere) giocherà un ruolo strutturante anche in Nature morte e vanità (Vydia, 2020) – per averne una verifica quasi interlineare, basta leggere l’accurata recensione di Roberto Batisti apparsa su «La Balena Bianca»3.

Dopo aver recuperato gli ‘scheletri metrici’ dall’armadio della poesia, insomma, Petrosino decide di riscattare anche qualche ossicino disperso nel guardaroba delle arti figurative, creando una sorta di doppia restrizione sadica; non soltanto il (benefico) cilicio della forma, ma anche la coartazione supplementare del contenuto. Sarebbe troppo banale affermare che lo schema diventi contrainte di libertà; l’originalità dei testi di Petrosino non scommette tanto (o soltanto) sullo scarto differenziale tra regola normativa ed emancipazione della prassi – il gioco più serio e pericoloso con cui si rapporta, del resto, l’intera storia della letteratura, dalle acrobazie di Jacopo da Lentini a quelle (per certi versi più reazionarie) dell’Oulipo.

Se la tentazione sarebbe quella di coinvolgere nell’argomentazione generale anche la dimensione orale e performativa di Petrosino (abituale frequentatore dei palcoscenici nazionali degli slam – nonché recentissimo vincitore del più serioso Premio Internazionale Rainer Maria Rilke), l’analisi tenterà per statuto di concentrarsi soltanto su testi e macrotesto, aggiungendo mimeticamente un pizzico di contrainte critica alle già numerose coercizioni d’autore.

 

Alfonso Maria Petrosino, Nature morte e vanità

 

Partiamo dall’architettura macrotestuale: scorrendo l’indice, al lettore sembra di entrare in una pinacoteca allestita da un collezionista simile al maniacale Burt Lancaster (alias Mario Praz) di Gruppo di famiglia in un interno. Nell’elenco dei 60 titoli, infatti, si individuano ben 16 nature morte, 14 vanità, 7 interni e 4 autoritratti. E non sarà difficile riconoscere, tra i restanti 19 testi, varianti sinonimiche (più o meno nascoste) delle precedenti categorie; la vanità diventa recanatese in Scheletro e luna e baudelairiana in Spleen, mentre si affastellano una serie di sfondi pittorici (Paesaggio arcadico, Piazza italiana, Paesaggio marino, Trittico di Richerenches) e di utensili ‘da natura morta’ (la Tequila doppia, Una gardenia). Nel revocare il meccanismo di ripetizione dell’identico, le manipolazioni, in realtà, enfatizzano la litania ipnotica di quello che presto risuonerà all’orecchio del lettore come un tema e variazioni scopertamente inceppato.

L’iterazione modulare rappresenta senza dubbio una delle strategie narrative tese a tutelare l’unità della silloge. Batisti ha contato ben 28 esemplari di teschi tra le pagine di questa raccolta, anche se a generare un’impressione perturbante non è tanto la moltiplicazione di lemmi legati alla costellazione del mortuario e della vanitas (lo scheletro, lo specchio, la cenere) – che il lettore si aspetta e, anzi, perversamente pregusta, avendo scelto di fidelizzarsi a un libro tanto esplicito sin dalla scelta di una titolatura trasparente e parlantissima. A innescare un’ostranenie percettiva più subdola è, invece, l’eterno ritorno di oggetti e dettagli apparentemente secondari (le fiammelle del gas, i fermacarte, il bestiario ricorsivo degli animali – roditori, scarafaggi, gatti, moscerini). La riapparizione di alcuni pattern disseminati dietro le quinte allarma lo spettatore, che concluderà la lettura con il presentimento di aver letto (e ‘visto’) un’unica natura morta, disposta in un’unica disordinata stanza – salvo poi dimenticare se quegli oggetti d’uso comune appartengano al poeta o al proprio vissuto. Un esempio di questa replicazione seriale si può trovare nel presenzialismo montaliano del limone: il «giallo intenso» dei limoni, che compaiono in un «cesto» tanto nella Natura morta con limoni (p. 26) quanto in Vanità del suicida (p. 44), si trasfigura poi nelle «fettine di limone» tagliate per preparare una Tequila doppia (p. 33), fino a ‘geolocalizzarsi’ (nei territori fisici e in quelli della memoria) nelle «lucenti striature di un limone | di costiera» (p. 38). Del resto, l’intero libro sembra perennemente oscillare tra le polarità opposte di un ritratto calcografico del reale – messo affettuosamente in posa per poterne ricalcare i contorni – e un parallelo Esercizio di mnemotecnica, come recita uno dei titoli di Petrosino (p. 41). Se consideriamo un secondo esempio di ripetizione situazionale, ossia lo sdoppiamento dell’ambientazione portuale che ritroviamo in Un bastimento carico di oblio (p. 21) e in È solo un’altra tacca in più (p. 32), possiamo verificare come il porto, ripetendosi, trasli da una dimensione onirica a una riconoscibilità autobiografica (le darsene di Salerno). Mentre l’esistenza dilata progressivamente il baratro (geografico, emotivo, cronotipico) tra due luoghi o eventi assimilabili soltanto sulla carta, gli oggetti scandiscono una sorta di contro-biografia segreta che svela, all’opposto, la latenza di un’omologia universale. A dispetto di Eraclito, ci si bagna sempre nello stesso fiume – e si taglia sempre e soltanto un unico limone.

In alcune sezioni la ripetizione funziona come ponte schiettamente ‘tecnico’ per unire due componimenti limitrofi – come nel caso del limone tagliato a «mezzaluna» nella Natura morta con limone (p. 38) che sembra riflettersi, come un Narciso tipografico, nella pagina affianco, in cui il sorriso dell’Autoritratto alla maniera di Modigliani si riverbera, per l’appunto, «su guance, zigomi, mascella e gote» come «onde in uno stagno a semilune» (p. 39, i corsivi sono miei).

L’elenco dei moduli ricorsivi potrebbe proseguire, ma quello che ci interessa ora è chiarirne la valenza strutturale. Per quanto gli oggetti d’uso comune non appartengano esplicitamente all’immaginario sepolcrale, il loro ossessivo ritornare acuisce il senso generale di vanitas, in un’amplificazione attuata non per via tematica ma attraverso gli espedienti tecnici della forma. In una vita umana le mani toccheranno innumerevoli tazzine da caffè, cucchiaini, pagine di giornale, e ogni rapporto con l’uguale rappresenterà «un’altra tacca in più» (o, a seconda della prospettiva, un’altra tacca in meno) sul legno della propria metaforica barca. La sommatoria di tutti i limoni tagliati è complementare a quella dei limoni che non avremo mai il tempo di tagliare; la relazione con ciascuna cosa, donna o parola è un’acquisizione e una perdita – come ci ricorda l’identico variare degli oggetti.

Nell’affratellare la maniera di Sinisgalli a quella di Morandi, Contini parlava di un’«ininterrotta, ascetica meditazione […] attorno agli umili oggetti sottoposti a una giornaliera consuetudine, resti affabili e domestici sopravvissuti a un mondo scheggiato»4. E, in effetti, anche nelle Nature morte di Petrosino il barthesiano piacere del testo – provato al cospetto di descrizioni esatte (quasi da Accademia delle belle arti) di utensili quotidiani – convive con il sospetto assillante che quegli stessi elementi provengano da un universo in frantumi. L’io-scheletro si è forse barricato in casa per non assistere a qualche imprecisato disvelamento catastrofico, le cui avvisaglie, tuttavia, allagano anche gli interni borghesi, come si può riscontrare dalla marcescenza delle pareti: le «crepe» sull’intonaco (p. 20), il «segno» lasciato dai quadri staccati (p. 44), le «infiltrazioni del terrazzo» (p. 53) e persino gli «asterischi» di sangue disegnati dalle zanzare schiacciate venano come moniti materiali il guscio protettivo dell’abitazione.

 

L’apprendistato consumato su un unico tema
viene ricondotto a un esercizio di oggettività,
una forma di auto-addestramento alla concretezza.

 

Di fronte a un’Apocalisse esterna sul punto di riversarsi intrusivamente dagli stipiti della casa/io, l’arabesco figurativo – e la volontà di fissare le immagini attraverso una cornice pittorica – sembra porsi come argine resistenziale al disordine cosmico. Le allusioni iconografiche ostentate in alcuni testi (le «tele di Soulages» in Interno sotterraneo, p. 31, L’autoritratto alla maniera di Modigliani, p. 39, oppure le mele «più effimere di quelle che dipinse | Cézanne», p. 45) non rappresentano meri accidenti citazionistici ma sono sintomi di un funzionamento plastico più profondo, che risponde alla necessità di costruire uno stile reattivo e compensatorio. Una forma che, attraverso la visione, possa idealmente riempire e ‘stuccare’ le crepe di cui è tramato l’(auto)ritratto. Un esempio di questo trattamento disegnativo del reale si può individuare nel fatto che la parola «luce» compaia 23 volte, sempre con una figuralità marcatamente pittorica. L’insistenza – ben più che statistica – sullo spettro delle sfumature cromatiche irradiate dal fulcro luminoso (il sole, la lampadina, i fornelli della cucina) sembra emulare la pazienza seriale dei pittori impressionisti (si pensi soltanto alle calendarizzatissime Cattedrali di Rouen di Monet), in un esorcismo paesaggistico mascherato da studio analitico sull’incidenza dei raggi luminosi. Se la descrizione della luce sarà esatta, forse il sole non si spegnerà. Nelle poesie di Petrosino la luce piroetta tra «crepuscolare» (p. 20), «meridiana» (p. 24) e pomeridiana (p. 26), filtra spesso dagli infissi (pp. 18, 23 e 42) ed è costitutivamente debole («fioca luce», p. 26, «un tremolio di luce», p. 46, «un filo appena | di luce», p. 63) ma, soprattutto, intrattiene loschi commerci con il buio. Ad esempio, in Vanità con libri e kindle, p. 25, la luce «abbindola, | dà l’illusione di durare, e dura | un unico chiarissimo barlume», eppure «La stanza in cui però mi trovo è scura, | si spande come se fosse olio l’ombra», in un tonalismo caravaggesco che costruisce la plasticità delle figure attraverso il bisticcio tragico tra luminosità e tenebra5. La dicotomia luce/ombra trova una conciliazione ossimorica nella «luce bruna» (p. 22) o nel «raggio grigio» (p. 56), in un neo-gnosticismo che – complice Montale – rappresenta per la poesia moderna il rimosso sacrale di un cattolicesimo abiurato confessionalmente ma mantenuto operativo (o addirittura riattivato) come bacino inesauribile di narrazioni, di miti e di colpe. E di un’allusività biblica è trapuntato il volume di Petrosino; ad attirare l’attenzione del lettore non sono tanto le citazioni esplicite dei Testi (prima fra tutte la Vanità con Bibbia e fiore, con il vento che si concede «una lettura» spirando tra le pagine dell’Ecclesiaste, p. 13) quanto l’impressione costante che un intero immaginario dottrinario (quello onnipresente della vanitas e del monito oraziano-liturgico «Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris») non abbia conservato, in fondo, alcunché di religioso. Il sacro è diventato un concetto svuotato e cavo, come un teschio.

Tutti i testi, insomma, funzionano come quadri proiettivi, inverando per accumulo quel meccanismo di mise en abyme esplicitato nel primo componimento (Porta d’ingresso, p. 11), che si conclude sintomaticamente con i versi: «Sulla parete una natura morta | ed il disegno di un ingresso: quello». Ciascuna poesia può offrirsi al lettore come disegno a carboncino di una situazione reale; collocarlo sul muro di questa galleria contribuisce a tenere in vita quel principio di oggettivazione individuato da Bloch nelle Nature morte morandiane. Segregate nella cornice della rappresentazione prospettica, le vite (e le morti) appartengono alla storia immemoriale delle arti figurative.
In effetti, la finzione ecfrastica protegge e scherma dai problemi ormai cronici dell’io lirico. Nell’autofiction critica del contemporaneo, l’autore – dichiarato morto e sepolto nei funerali strutturalisti di Roland Barthes e Michel Foucault, poi parzialmente risorto (in forma vampiresca di zombie) nelle secolari restaurazioni che seguono ogni grande rituale collettivo di uccisione di padri e patrigni – ha recuperato il polso (letteralmente) e la scena in forma di domanda amletica irrisolta. Come nel gioco infantile in cui, intrecciando le mani, il bambino doveva indovinare se il fantomatico uccellino fosse vivo o morto, la critica attuale serra le falangi argomentative attorno al corpo (altrettanto fantasmatico) dell’io lirico, senza avere poi il coraggio di dischiudere il pugno per scoprire se sul palmo si trovi a tutti gli effetti un cadavere.

Petrosino sembra schivare la polverosa questione del soggetto sostituendo all’esercizio della scrittura quello della descrizione, e barattando l’autobiografia per un’autopsia ecfrastica. È vero, come ha scritto Batisti, che l’autore dissemina per tutto l’arco del libro le briciole della propria carta d’identità: le città – Parigi, Salerno, Pavia, Torino – dove si è «rimescolato» e «conosciuto», la passione per gli scacchi, gli autoritratti appositamente costruiti per apparire rassomiglianti. Eppure questi bruscoli autofinzionali non conducono alla casa dell’io; se nella favola di Hänsel e Gretel sbriciolare pezzetti di pane serviva a ritrovare la strada, nel libro di Petrosino i frammenti dell’identikit privato assolvono la mansione contraria di congedare il soggetto – e quel suo presenzialismo autoironico caratteristico delle raccolte precedenti. Il narratore non soltanto, come scrive Alberto Bertoni, «si diverte a mettere in scena il proprio corpo in forma di scheletro» (Prefazione, p. 7); l’autorappresentazione ossificata e ‘mortificata’ sarebbe, se non scontata, quantomeno subdola e prevedibile – e il gioco è troppo raffinato per scadere nel ricatto della fanbase. Il cosmo stesso viene attirato nel buco nero di questa reductio ad naturam mortuam; scheletri diventano la confezione del latte, con il buco-stigmate spalancato sul ‘costato’ (p. 14), e la «torre dei cartoni delle pizze», con i «fori» simili a globi oculari vuoti (p. 50). Che funzione assumerà l’io lirico in questo mondo scoperchiato, in cui ogni oggetto viene scuoiato dalla necroscopia della scrittura (e, direbbe Sanguineti, «servito al naturale»6)?

 

Il sacro è diventato un concetto
svuotato e cavo, come un teschio.

 

Nelle Nature morte si assiste parallelamente a un’ipertrofia del soggetto e a una sua sostanziale irreperibilità (non negazione, si badi bene, ma piuttosto un’indifferenza spicciola, con tanto di bonaria alzata di spalle)7. Ipertrofia perché è lo sguardo del soggetto a scegliere i quadri da appendere alle pareti del macrotesto, a sequenzializzarli e a ritoccarli inserendo alcuni tasselli tematici formulari, per creare il già citato effetto di memorabilità e di coesione interna. Irreperibilità, invece, in quanto il soggetto viene a coincidere con un’unica azione (il vedere) priva di mobilità, progressione, movimento ascensionale o discenditivo. È il tempo eterno della contemplazione, non quello storico della trama, a scandire l’atemporalità figurale della raccolta. Se le Nature morte sembrano rispettare diligentemente la prima delle due condizioni imprescindibili, nella classificazione formalizzata da Maria Corti, per parlare di ‘macrotesto’ – l’esistenza di «una combinatoria di elementi tematici e/o formali che si attua nella organizzazione di tutti i testi e produce l’unità della raccolta»8 –, non è altrettanto facile individuare il secondo presupposto – ossia la «progressione di discorso». La forma-Canzoniere, si sa, implica la messinscena di una storia, sintetizzabile grossolanamente come l’evoluzione interiore del protagonista. Nel libro di Petrosino l’io lirico non ordina gli oggetti della propria visione secondo una cronistoria ragionata o valoriale di matrice teleologica; alle sorti magnifiche e progressive del diario intimo l’autore oppone una giustapposizione agnostica di materiali di lavoro. La descrizione ecfrastica consente al narratore di emanciparsi dalla domanda ricattatoria della modernità (se sia nato prima l’io lirico o la morte dell’autore). Le Nature morte paiono confermare una certa propensione, ravvisabile nella poesia contemporanea, ad abbandonare il Canzoniere per recuperare la forma (non casualmente barocca) della Galleria – in un passaggio di consegne tutto sommato indolore, senza abiure freudiane o tribunali narratologici. La struttura della pinacoteca (da Filostrato a Marino) garantisce la possibilità di esercitare lo stile su temi eterogenei senza dover giustificare l’assetto ordinativo dei testi con l’excusatio non petita dell’autofinzionalità. Come ha scritto Michele Cometa a proposito delle gallerie poetiche di Antonella Anedda,

Questa “galleria” si rivela un dispositivo parecchio moderno se è ormai possibile mettere insieme una sorta di personalissimo “atlante delle immagini” in cui un quadro di Tiziano può convivere con uno di Bacon o Jordaens con il Beato Angelico […]. È questa una forma di galleria che per prima cosa abbatte i generi, poi le cronologie, infine ogni forma di pertinenza museale, per affidarsi a una pertinenza tematica che non ha paura, come nel caso della galleria di dettagli di Antonella Anedda, di “mutilare” il quadro attraverso uno sguardo personale e legato a una logica del desiderio più che a coordinate storico-artistiche9.

Ed è forse all’insegna di questa «logica del desiderio» – e non di un semplice gusto camp per la frizione tra erudizione accademica e cultura pop – che le rime di Petrosino inchiodano assieme «Sant’Anselmo» e «pompelmo» (p. 43), «sedia» e «Wikipedia» (p. 64). Non è l’enciclopedismo glamour del postmoderno ma piuttosto una forma secolarizzata e ciclica di neo-barocco che si incontra tra le pagine delle Nature morte. Nel suo saggio storico-militante su Barocco e Novecento (1960), Luciano Anceschi lo etichettava come una situazione storicamente ritornante; e, del resto, già Walter Benjamin aveva sostenuto che il barocco, come l’espressionismo, non fosse «tanto un’epoca d’arte in senso proprio, quanto un’epoca dalla volontà artistica [Kunstwollen] ostinata», in cui il linguaggio cerca di essere elaborato per «apparire all’altezza della foga degli eventi»10. Il barocco contraddistingue epoche segnate da una profonda crisi delle istituzioni pubbliche e da un progresso tecnologico avvertito come disumanizzante – condizione materiale accompagnata da un diffuso senso di vuoto che necessita di essere colmato attraverso una predilezione per l’artificio e il funambolismo tecnico11. Il mondo, percepito come un divenire incomprensibile, viene trasferito sul piano dell’effigie, della decorazione, della vanitas che preferisce le nevrosi dello scrittoio alle gioie dell’en plein air.

In sintesi: ci troviamo di fronte a un (semi)macrotesto assimilabile a una Galleria barocca, con un’ultima osservazione da tirare fuori dal cilindro per obliterare definitivamente l’ombra bloomiana della forma-Canzoniere: la posizione del tu lirico. Nell’archetipo petrarchesco (e in tutti i suoi postumi nipotini) risulta «imprescindibile» la presenza di una «figura deuteragonistica» (la donna amata, presente o assente, in salute o in malattia, reale o ideale, bellissima come Laura o bruttarella come Felicita)12. Se ad occupare lo spazio della deuteragonista compare un giovane (amico o amante omoerotico) poco importa: l’intelaiatura canzonieristica è salva.

Nel libro di Petrosino, invece, le stanze della relazionalità intersoggettiva sono vuote. Attraverso gli intrecci virtuosistici dei ricami metrici e i correlativi oggettivi della vanitas il lettore è portato ad avvertire al contempo la sparizione dell’umano e l’urgenza di recuperarne il contatto empatico. Il componimento incipitario (Porta d’ingresso, p. 11) è inaugurato dall’apertura della porta (anamorfosi e sineddoche dell’accessus testuale alla raccolta). La casa, avverte subito l’io lirico, è «vuota e oscura»: «non c’è nessuno», ribadisce quasi autisticamente il soggetto, e la chiave riposa «ancora in una ciotola» (segno che nessuno è entrato o uscito dallo spazio domestico, per un tempo che l’uso del presente iterativo rifiuta di collocare entro i rassicuranti paletti di uno svolgimento diacronico)13. Nel secondo testo (Piaghe d’Egitto, p. 12) sembrerebbe affacciarsi un personaggio («sento una voce amica») il cui certificato d’esistenza è subito revocato dal tricolon dubitativo «chissà perché, da quanto e chi» – quasi un retaggio mnestico del sereniano «nulla nessuno in nessun luogo mai»14, svuotato però della negazione nichilistica. Piuttosto che dichiarare l’assenza, il soggetto si aggrappa a un’ipotesi onirico-consolatoria – quasi una seduta (psico-)spiritica in cui ad essere evocato è qualcuno (chiunque) non sia l’io. La «voce amica», però, diventa udibile per pronunciare una condanna inappellabile alla solitudine («mi invita | a ritrovarmi solo tra le cose, | nelle nature morte e nelle vanità»); lo spazio del dialogo esiste soltanto come ratifica del monologo interiore.

 

Il cosmo stesso viene attirato nel buco nero
di questa reductio ad naturam mortuam.

 

Le Nature morte grondano di voci provenienti da un luogo alieno, fantasmi vocali che infestano l’Heimat (casa? cassa? reliquiario domestico?) in cui è imprigionato il soggetto15. Spesso si tratta di rumori antropici – il «suono di tacchi affrettati», il «toc toc di nocche sulla porta» (p. 18), un trambusto di «passi» (p. 55) – che, tuttavia, provengono regolarmente dalla «stanza accanto» (p. 18) o dal «corridoio» esterno (p. 55), inducendo il sospetto che si tratti di Venere (o della sua coinquilina più longeva e fraterna, la Morte) a incedere su scarpe pericolosamente alte, scandendo la marcia sulla passerella del parquet come le lancette marziali di un orologio (elemento ritornante nel repertorio iconografico delle Nature morte).

Altre volte si tratta di voci meccaniche o tecnologiche: la radio «ininterrottamente blatera | assurdità» (p. 12) e, di nuovo, «in sottofondo blatera» e «annuncia un’imminente apocalisse» (p. 18) – secondo il consueto meccanismo iterativo che, nel caso della radio di Natura morta religiosa, genera un divertito calembour linguistico con l’omonimo osso evocato nella contigua Scheletro e luna («l’omero alzato e tesi il radio e l’ulna», p. 19). Oltre alla radio, il lettore avverte altri brusii tecnologici: il «trillo del timer in cucina» (che, nella Natura morta con mela, pera e lattina, p. 20, «batte il secondo» che il cuore del protagonista «leva», in una sovrimpressione tra corpo e anatomia dell’interno domestico), oppure il frigorifero «che suona | perché è rimasto aperto lo sportello» (p. 55). Il colloquio con le ombre, correggendo Montale, qui si fa per telefono: nell’Interno familiare «squilla il telefono e nessuno va» (p. 17), così come nell’incipit di Natura morta con limone, in cui «lo squillo del telefono non smette | di emettere il suo trillo per le stanze» (p. 38) e, nella Natura morta in pizzeria, «Nessuno alza il telefono che suona» (p. 50); nella Natura morta con scacchiera, addirittura, lo «squillo del telefono in salone» viene paragonato al «suono della tromba del giudizio» (p. 45).

Se esistono gli elettrodomestici, dovrà esistere per forza qualcuno che li programma, che registra le comunicazioni radiofoniche, che telefona; deve esistere un mondo fuori dal quadro. E in effetti un manipolo minoritario di personaggi ‘in carne e ossa’ si incontra ai margini dal recinto domestico: ad esempio, il «doganiere assorto» di Un bastimento carico di oblio (p. 21) – il quale, oltre al fatto di comparire in quella che assomiglia da vicino alla sbobinatura di un sogno, «non ha parlato», in un mutismo sapienziale che impedisce qualsiasi epilogo dialogico alla scena. Analogamente, nell’Autoritratto con la madre (p. 24) il discorso è revocato e impedito – oltre che dalla distanza temporale del ricordo – da un atto mancato, la lettera che il protagonista «aveva «scritto per lei ma che non ho spedito», custodendola gelosamente in tasca. La carrellata esemplificativa potrebbe continuare con la silhouette femminile di Eugenia che si corica vicino al protagonista ma «fantasmagorica» – in un sospetto di patente inesistenza o proiezione visionaria suffragato indiziariamente dalla bottiglia di tequila «scolata» nell’incipit della poesia (p. 33)16. I «quattro ragazzi ed una | ragazza» che discutono su una panchina del Paesaggio arcadico (p. 29) rappresentano forse l’unico affioramento umano tangibile – anche se la prospettiva, che consente al narratore di distinguere le loro «ombre» sull’erba e il graffito pastorale «ET IN» scritto «sul muro | in fondo al portico», pare suggerire piuttosto un’angolazione aerea e dislocata (la finestra dell’abitazione mortuaria?).

L’intero libro può essere visto, insomma, come una quête alla ricerca della presenza umana – l’unica possibilità di redenzione dalla materia, dopo aver scoperto l’obsolescenza dei talismani divini. Attraverso il bagno lustrale negli oggetti (e nella vanità), il pubblico si accorge di aver perso qualcosa, nella chiusura immunitaria della propria stanza-monade (tema particolarmente scottante in tempi di clausura pandemica ma, più in generale, di quell’iper-individualismo sclerotizzato da un capitalismo endemico e ormai terminale). La speranza è nell’altro, in ciò che sta fuori (dalla camera ardente degli interni, dal libro, dalla poesia intesa come lingua morta di trasmissione necrofila del passato). Anche il Canzoniere, con il suo teatrino diegetico di donne, amori, cammini manichei di formazione (o speculare deformazione maledettistica) è fuori; sarebbe bastato socchiudere una delle innumerevoli porte che cadenzano gli ambienti domestici delle Nature morte per vedere il cliché materializzarsi. Il lettore, nascondendosi dietro le spalle del narratore-teschio, spia dalla fessura la vita delle forme – guardandola, al contempo, come un riscatto (dall’autoreferenzialità mortuaria) e come una trappola (che porta a ricadere nel vizio della zanzottiana «madre-norma»17).

Se quel tintinnare di tacchi (e di trame narrative) sia il canto camuffato di una sirena, la tromba del giudizio oppure l’innocua voce di una donna, sarà la decisione insindacabile di ogni lettore a stabilirlo. Al critico resta soltanto la meraviglia di una scrittura che preferisce tapparsi bocca e orecchie, legarsi polsi e caviglie – ma lasciare ben spalancati gli occhi – pur di evitare il rischio di aprire la porta e partecipare alla festa (vuota e desiderabile) della convenzione.

 


Note

1 V. Bloch, Giorgio Morandi: Paintings and Prints, Arts Council of Great Britain, London 1954, pp. nn.

2 P. Giovannetti, La poesia italiana degli anni Duemila. Un percorso di lettura, Carocci, Roma 2017, p. 73.

3 R. Batisti, Testi e teschi, scheletri e metri: su “Nature morte e vanità” di A. M. Petrosino, «La Balena Bianca», 27 ottobre 2020: https://www.labalenabianca.com/2020/10/27/nature-morte-e-vanita-petrosino-batisti/. Rimando a questa meticolosa analisi anche per i sondaggi relativi alle rime, agli endecasillabi e ai ritmi fonici.

4 G. Contini, Ricordo lucano di Sinisgalli, in Ultimi esercizi ed elzeviri, Einaudi, Torino 1988, p. 400.

5 Per questo contrappunto tonale, cfr. anche i seguenti esempi (i corsivi sono miei): «nella fioca | luce del pomeriggio. Più si oscura» (p. 26); «Inesorabilmente l’aria imbruna: | mentre scintilla e si trascina il sole | l’oscurità si infiltra nelle aiuole» (p. 29); «dalle persiane obliquamente penetra | la luce, un filo appena, sul parquet che | ciò nonostante resta nella tenebra» (p. 58); «il sole penetra e col suo compasso | disegna i limiti del chiaroscuro | con archi d’ombra e filigrane d’oro» (p. 68).

6 Mi riferisco al dodicesimo componimento di Cataletto (1981), in cui il poeta pratica metaforicamente un rituale di auto-scuoiamento («mi infilo in bocca una mia mano, | scendo nella mia gola più profonda, con il mio braccio, e avanti, e sotto, sempre più | dentro […] mi rovescio le viscere, e mi sembro la scuoiatura del coniglio, | forse: e grido […]: venite qui, e vedete: è questo l’uomo nudo, | il vivo e il vero, se lo prendi nell’intimo dell’imo (servito al naturale):» (E. Sanguineti, Segnalibro. Poesie 1951-1981, Feltrinelli, Milano 2021, p. 344).

7 Un’epigrafe significativa, in questo senso, si può trovare nel terzo testo del Trittico di Richerenches (p. 28), in cui il «frinio» delle cicale e la contemplazione delle «celesti ruote» conciliano l’oblio «sfumando il senso del pronome “io”».

8 M. Corti, Testi o macrotesto? I racconti di Marcovaldo di I. Calvino in Il viaggio testuale, Einaudi, Torino 1978, pp. 185-200.

9 M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Raffaele Cortina, Milano 2012, p. 77.

10 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, trad. it. di Flavio Cuniberto, Einaudi, Torino 1999, pp. 29-30.

11 L. Anceschi, Barocco e Novecento, con alcune prospettive fenomenologiche, Rusconi e Paolazzi, Milano 1960. Sul tema si vedano anche gli studi di O. Calabrese, Il neobarocco. Forme e dinamiche della cultura europea. Presentazione di Umberto Eco, La Casa Usher, Firenze 2013.

12 Riprendo le categorie e la loro problematizzazione storica e stilistica dall’Introduzione di N. Scaffai a Il poeta e il suo libro, Retorica e storia del libro di poesia nel Novecento, Mondadori Education, Milano 2005, pp. 1-11.

13 Analogamente, in Natura morta con pianoforte e uva, si legge: «Non è più lì | nessuno, cioè, volevo dire, io» (p. 30).

14 V. Sereni, Intervista a un suicida, in Poesia e prose, a cura di Giulia Raboni, con uno scritto di Pier Vincenzo Mengaldo, Mondadori, Milano 2013, pp. 213-215: 215.

15 L’idea di una costrizione (esterna o autoindotta) entro le mura domestiche si ritrova anche in Interno sotterraneo (p. 31), dove, sebbene l’umidità «afferri | al collo» il protagonista, egli si rifiuta di uscire («nonostante ciò non esco»).

16 La sospensione di giudizio relativa all’esistenza effettiva delle figure umane si ritrova, ad esempio, in Piazza italiana (p. 35), in cui si stagliano sullo sfondo «due persone | che fanno un’ombra, come lo gnomone | in pietra di un’enorme meridiana» – più simili ai profili impersonali del modello dechirichiano piuttosto che a veri e propri personaggi (e, in effetti, «non c’è nessuno in giro, a parte loro»).

17 A. Zanzotto, E la madre-norma, in Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, con due saggi di Stefano Agosti e Fernando Bandini, Mondadori, Milano 1999, p. 348.

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